Mi chiamo Matteo Munari e da circa sei mesi mi occupo di inserimenti lavorativi rivolti a persone con fragilità o vulnerabilità economica-sociale presso l’Associazione La Rotonda.
Ho studiato International Business Economics per lavorare 6 anni in ambito profit nel dipartimento marketing di un’azienda multinazionale. Poi ho iniziato ad immaginarmi diversamente, ho deciso di cambiare, nuovi studi, nuovi interessi, nuovi progetti. Prima ho frequentato un corso di imprenditoria sociale e per “ultimo” un corso riconosciuto dalla Regione Lombardia come job coach per l’inserimento nel mondo del lavoro di persone neurodivergenti.
Ho scelto di diventare consulente diversity inclusion perché mi stimola poter credere in un cambiamento, mi immagino una società migliore, più vicina a chi ha bisogno: fare quello che serve e che è giusto da un punto di vista sociale per me è passione e gratificazione. Mi piace relazionarmi con le aziende e con i beneficiari, di fatti sono tanto consulente con le aziende quanto operatore in prima linea. Solo così tocchi con mano e ti accorgi di cosa funziona e cosa non va. Diffido di altre modalità se parliamo di inclusività.
Allo sportello lavoro riceviamo richiedenti lavoro del territorio e limitrofi. Arriviamo a gestire circa 173 ingressi annui, per ognuno di loro facciamo uno o più incontri conoscitivi per verificare motivazione e bilancio di competenze. Ci occupiamo di compilare e consegnare un CV il più efficace possibile e li assistiamo proattivamente nella ricerca del lavoro. Lavoriamo in simultanea su due fronti: operations e placement. Ovviamente l’obiettivo è giungere ad almeno un’opportunità di colloquio per ogni beneficiario, per questo è fondamentale allargare il network di aziende che ruotano intorno al servizio dello sportello lavoro e creare progettualità condivise con altri partner del territorio che si occupano di formazione professionale o inserimento lavorativo. Mi occupo maggiormente di inserimenti lavorativi, anche come figura di riferimento per le aziende.
I beneficiari che si affacciano al nostro servizio sono in prevalenza di sesso femminile (62%). Il 47% dei richiedenti ha ancora delle difficoltà con la lingua italiana. Più del 55% ha un livello di istruzione medio-basso e il 74% è di età under 50. Quasi tutti sono profili generalisti. I numeri non sono facili, infatti il messaggio che portiamo alle aziende è diverso, sicuramente non quello del candidato ideale a livello di curricula. Cerchiamo infatti di valorizzare la persona in difficoltà attraverso un approccio più umano legato al suo trascorso: motivazione e voglia di imparare restano imprescindibili.
Trovare lavoro a persone fragili e/o vulnerabili non è semplice. In caso di candidato neurodivergente devi essere molto preparato, non dare nulla per scontato, lavorare molto sul contesto ambientale aziendale e ascoltare anche i suoi silenzi. Se riesci a fare tutto questo il candidato trova il suo spazio e poi la sua presenza riesce ad arricchire e fra felici tutti, rompendo anche uno stigma sociale.
Le aziende a volte non rispondono. Noi perdiamo la possibilità di essere ascoltati e loro quella di sviluppare una sensibilità che aiuterebbe tutti. Altre aziende, invece, si mostrano subito interessate rispondendo positivamente via email. Bisogna esser bravi a trovare dei punti di condivisione. L’inclusione lavorativa di successo accade spesso quando si è mossi dalla stessa motivazione, si condividono intenzionalità e si è spinti dalla stessa ragione e desiderio sociale d’inclusione. Quindi c’è già una predisposizione e le radici valoriali sono ben salde. In quel caso si parla la stessa lingua e ci si capisce in fretta. In questo caso la persona trova un ambiente accogliente e in parte già formato. Così i primi giorni di inserimento, solitamente i più critici e che richiedono un nostro monitoraggio, sono più facilitati. Le difficoltà si riscontrano per tanti fattori: quando non c’è un vero commitment sociale da parte dell’azienda, quando manca una cultura condivisa sulla tematica, quando si hanno secondi fini “intrusivi” che prevaricano sul voler creare del bene condiviso, quando manca un decisore risoluto (d’altronde le aziende sono fatte di persone e sono ancora le persone, nel bene e nel male, a fare la differenza).
Per stimolare questo cambiamento culturale, se potessi interagire direttamente con chi è a capo dell’azienda chiederei: “In un mondo ideale, se tu avessi la possibilità di raddoppiare i prezzi senza perdere quote di mercato e mantenendo costante il profitto d’impresa, in cosa investirebbe la ricchezza creata? In base alle risposte (sincere) potremmo capire se c’è margine di miglioramento come società inclusiva.“